Distratti, frettolosi, smemorati, incapaci di fermarci a contemplare. Così tendiamo a essere, e nella tecnologia troviamo un potente alleato. Grazie allo smartphone possiamo sempre sentirci “altrove”, impegnati in conversazioni e relazioni lontane da ciò che abbiamo sotto gli occhi in quel momento. I dati che le macchine elaborano servono a rendere ancora più efficiente questo processo: troviamo più rapidamente ciò che cerchiamo e in meno tempo siamo in grado di condividere foto e video con i nostri contatti. Ma proprio da quegli stessi dati potrebbe arrivare la soluzione: un modo più attento, quasi contemplativo di guardare a quanto ci succede durante le nostre giornate.
La condizione è considerare quei dati non più soltanto come elementi aridi e impersonali, ma come una materia prima che, opportunamente trattata, può raccontare la nostra vita, e farcela percepire con occhi diversi. Per farlo occorre, innanzitutto, togliere il computer dalla scena. I dati sono roba nostra, le macchine servono solo a elaborarli, ma potremmo benissimo farlo da soli. È la convinzione di Giorgia Lupi e Stefanie Posavec, artiste attive da anni nel campo della visualizzazione dei dati, residenti rispettivamente a New York e a Londra, che per un anno si sono scambiate ogni settimana un resoconto di un aspetto particolare della propria vita. Ognuna di loro raccoglieva un certo tipo di dati (come i trasporti pubblici presi, gli orologi visti, le porte attraversate, ma anche le risate, i momenti d’indecisione, gli addii, i complimenti ricevuti, i desideri) riassunti poi in una rappresentazione grafica disegnata a mano su una cartolina. Dal progetto che è entrato a far parte della collezione permanente del MoMA di New York, è nato un libro che ne porta il nome: Dear Data . “Il nostro scopo era mostrare come attraverso i dati si possa comunicare anche qualcosa di più caldo, emozionale, che fa parte della nostra vita”, spiegano le due artiste.