No, non è un capolavoro. “Squid Game” (“Il gioco del calamaro”), la serie più vista di sempre su Netflix (142 milioni di spettatori, cifra in continua crescita), vietata in teoria ai minori di 14 anni, ma in realtà fenomeno dilagante proprio tra i bambini e i preadolescenti, non è all’altezza di “Parasite”, di Bong Joon-ho, vincitore dell’Oscar nel 2020, cui è stata paragonata se non altro per la stessa provenienza sudcoreana. Si tratta di un prodotto di buona qualità, ben scritto e ben girato, con una cura estrema per ambientazioni e musiche che immergono efficacemente lo spettatore in un mondo distopico dove si consumano atti d’inaudito cinismo e spietatezza in uno spazio che sembra un innocuo parco giochi per bambini. L’intreccio funziona ed è difficile staccarsi perché ogni puntata si chiude con un cliffhanger – un “gancio” narrativo – che impone la visione del successivo episodio al più presto. Ma non mancano incoerenze narrative e personaggi incompiuti, oltre a colpi di scena poco spiegabili se non con il desiderio di stupire a ogni costo lo spettatore.
Giochi e lotta all’ultimo sangue
La storia – disponible inizialmente solo in lingua coreana sottotitolata, poi tradotta – è quella di un gruppo di 456 disperati, in povertà estrema, molti arrivati a promettere agli strozzini anche i propri organi vitali (con un documento di rinuncia ai diritti fisici) che decidono di partecipare allo Squid Game, dal nome di un popolare gioco coreano per bambini, dove ci si sfida all’interno di un perimetro dalla forma stilizzata di un calamaro. In palio c’è una cifra enorme (equivalente a 33 milioni di euro), e in tutto sei giochi in cui sfidarsi: chi perde viene eliminato, ma non in senso metaforico. Nel primo gioco – Un, due, tre stella – si chiarisce ai partecipanti la vera dinamica della gara. Tutti quelli che si sono mossi, e quindi restano esclusi, vengono immediatamente uccisi a colpi di mitragliatrice da un gruppo di anonimi aguzzini in tuta rossa e maschera. Ben presto il campo da gioco si trasforma in un macabro ammasso di corpi e il terrore si sparge tra i sopravvissuti. Ma la vita nel mondo fuori è così orrenda per chi non ha un soldo, da indurre i partecipanti, lasciati liberi di andare a casa nel secondo episodio (intitolato “inferno”), a tornare entro pochi giorni sulla misteriosa isola dove si svolgono i giochi, anche se è ormai evidente che a sopravvivere alla fine sarà soltanto uno di loro.
Nel susseguirsi dei nove episodi si dipanano le vicende umane dei personaggi principali: il protagonista Seong Gi-hun, padre divorziato, dipendente dal gioco d’azzardo, che vive alle spalle della madre, ma vorrebbe occuparsi seriamente della figlia di dieci anni; la giovane Kang Sae-byeok, profuga nordcoreana che sogna di portare con sé la mamma e il fratellino, e il geniale Cho Sang-Hoo, amico d’infanzia di Gi-hun, capo di una società d’investimenti, ricercato per aver truffato i suoi clienti. Si creano alleanze, ma anche tremende rivalità, che portano alla mattanza notturna dell’episodio 4, con i giocatori che si ammazzano a vicenda, in una delle sequenze più disturbanti, girata in modo tecnicamente ineccepibile, con luci stroboscopiche ad aumentarne l’effetto ansiogeno. Ma sono molte altre le scene d’inaudita violenza che punteggiano la serie: da riprese splatter di estrazione di organi per il commercio clandestino a impiccagioni e sfide senza esclusione di colpi, ritratte nei dettagli più cruenti. Assistiamo così al degrado fisico e morale dei protagonisti, pronti a lasciar da parte ogni scrupolo, ingannare e uccidere, dimenticando ogni barlume di umanità, pur di riuscire a sopravvivere. Il tutto per il divertimento di un gruppo di nababbi depravati che scommettono su di loro e hanno un vago moto di fastidio ogni volta che i giocatori su cui avevano puntato muoiono e quindi escono dal gioco facendoli perdere. “Siete dei cavalli”, dice il misterioso capo delle guardie – il “frontman” – al vincitore finale invitandolo a guardare tutta la faccenda come un sogno, non così brutto, aggiunge, visto che gli ha fruttato 33 milioni di dollari.
Cultura orientale e emarginazione
Squid Game è il quadro di una società spietata che facciamo fatica a comprendere fino in fondo con le nostre categorie occidentali, un brutale capitalismo innestato sulla cultura orientale in cui non c’è spazio per lo Stato sociale e chi è meno fortunato è destinato alla totale emarginazione e all’impossibilità di accesso ai diritti più elementari come quello di curarsi secondo necessità. Ma è poi così diverso da quanto accade già oggi in varie parti del mondo? La serie, che si chiude con un esile barlume di speranza e un’apertura a una – quasi certa – seconda stagione, ci parla di tutto questo. Ed è il motivo per cui in molti ne hanno evidenziato un ipotetico aspetto formativo, proponendo di utilizzarla anche in contesti educativi, per suscitare un dibattito sulle domande di fondo che propone, come “Che cosa significa restare umani in uno scenario del genere?” “Qual è il prezzo di una vita?” o “Ci si può ancora fidare di qualcuno?”.
Ma per arrivare a porsi tali interrogativi occorre attraversare una valle oscura di violenze e sopraffazioni di ogni tipo esibite senza veli che saturano l’attenzione dello spettatore – specie se molto giovane – finendo per mettere del tutto in secondo piano l’intento di denuncia sociale, cui lo stesso regista Hwang Dong-hyuk ha alluso in varie interviste, nelle quali ha definito la serie «un’allegoria sulla società capitalistica moderna nella forma di un gioco di sopravvivenza».
Un immaginario crudo
Ciò che è destinato invece a rimanere è l’impatto di immagini crude e perturbanti, il cui generale effetto negativo, soprattutto sui minori, è ormai confermato da un numero crescente di ricerche. Il rischio non è tanto l’emulazione, che esiste, ma interessa perlopiù soggetti fragili e già predisposti, quanto l’insorgere di uno stato d’inquietudine, paura, disagio, oltre a un profondo senso di vulnerabilità. In sostanza un bambino esposto a un alto tasso di contenuti violenti considera il mondo un posto molto più crudele e pericoloso di quanto non sia in realtà e finisce per assuefarsi a comportamenti inumani, con il risultato di provare sempre meno empatia per le vittime, diventando via via più insensibile rispetto al dolore e alla sofferenza altrui, come spiega molto bene Dafna Lemish, in I bambini e la tv (Raffaello Cortina Editore, Milano 2008)
Il successo planetario di Squid Game sui più piccoli ha evidenziato con chiarezza questi rischi, che naturalmente riguardano anche molti altri prodotti di Netflix, dei servizi streaming concorrenti, formalmente vietati ai minori, ma di fatto agevolmente accessibili a un pubblico di qualunque età. E ha messo in luce come ormai da tempo non esista più uno spazio protetto, dove i contenuti audiovisivi siano realmente adatti anche ai bambini (a eccezione di servizi per i piccolissimi) e quanto poco si stia facendo in questa direzione da parte degli operatori. E’ certamente responsabilità dei genitori sorvegliare cosa guardino i figli e usare gli strumenti di parental control già disponibili per bloccare l’accesso a contenuti inadatti, ma chi produce e distribuisce tali prodotti dovrebbe porsi il problema di renderli davvero irraggiungibili, ad esempio richiedendo un documento che certifichi l’età di chi li vuole vedere, proprio come avviene al cinema con i film vietati ai minori. Operazione non facile, ma possibile. Anzi doverosa, se ci si rende conto realmente di quale sia la posta in gioco. Che Squid Game ci ricorda con brutalità, trasformando lo spazio colorato e gioioso dove ci si diverte – tutta la serie è giocata su tinte pastello e architetture che richiamano quelle dei parchi e delle camerette dei bambini- in luoghi di sofferenza, sopraffazione, crudeltà e morte. All’indomani dell’uscita della serie molte maestre elementari hanno segnalato, allarmate, come i propri allievi avessero misteriosamente cominciato a giocare a Un,due, tre stella, con punizioni anche violente per chi perdeva.
La serie opera un’autentica “espropriazione dell’immaginario” infantile: una cancellazione di quello spazio mentale fondamentale per la crescita, in cui pensare a cose da bambini e avere problemi da bambini. L’effetto è palpabile anche sugli adulti. Provate a guardare l’area giochi di un giardino dopo aver visto la serie coreana. E’ molto probabile che non riusciate più a vederla con gli occhi di prima e avvertiate una sottile inquietudine e forse in sottofondo la monotona cantilena che in Squid Game accompagna l’inizio dei giochi. E delle violenze.
Stefania Garassini
Originariamente pubblicato su Studi Cattolici