Tutto è cominciato con un’inchiesta pubblicata il 4 dicembre scorso dal New York Times, a firma del premio Pulitzer Nicholas Kristof che ha rivelato come su PornHub, il colosso del porno online, decimo sito più visitato al mondo, siano presenti un gran numero di video di stupri di minorenni, e in generale di immagini diffuse senza il consenso delle persone coinvolte, molto spesso minori. Kristof ha intervistato alcune delle vittime di questa pratica, dalla ragazza che aveva inviato immagini al compagno e le aveva viste poi pubblicate sul sito, a quella che invece era stata ripresa durante un rapporto sessuale senza esserne consapevole, a episodi di autentica violenza e prostituzione contro la propria volontà. Il tutto filmato e caricato sul sito. Con conseguenze spesso tragiche sulla vita delle persone coinvolte.
PornHub, controllato da MindGeek, società canadese di diritto lussemburghese proprietaria di molti altri marchi del porno su Internet, funziona in gran parte grazie all’attività dei propri utenti che caricano video amatoriali, molto più difficili da censire e controllare. I moderatori che dovrebbero monitorare la legalità dei contenuti sono un numero esiguo. Non esistono dati certi, ma secondo il New York Times sarebbero 80 in tutto, contro i 15mila di Facebook, per visionare oltre 6 milioni e ottocentomila video pubblicati ogni anno. Un’opera a dir poco improba.
Ora è aperta un’inchiesta per verificare le responsabilità di MindGeek, società dai profitti miliardari, e dal profilo sfuggente: se si visita il sito non c’è alcuna menzione del business della pornografia, ma si parla soltanto di servizi di web design e gestione siti, un’inchiesta del Financial Times di recente ha svelato alcuni particolari riguardo alla proprietà e il giro d’affari.
Attualmente ci sono interrogazioni parlamentari negli Stati Uniti, mentre in Canada alcuni deputati sollecitano un’audizione dei proprietari di MindGeek e il primo ministro Trudeau ha annunciato provvedimenti.
Nel frattempo Mastercard e Visa hanno interrotto ogni tipo di rapporto commerciale con il sito, la prima in modo definitivo, la seconda in attesa degli esiti dell’inchiesta: la presenza di contenuti illegali viola gli standard delle due aziende di pagamenti elettronici. Lo scorso anno Paypal aveva preso un’analoga decisione. In risposta PornHub ha dichiarato di aver aumentato il numero dei moderatori e di aver introdotto alcune restrizioni: non sarà più possibile scaricare contenuti dal sito e si dovrà possedere un account verificato per poter pubblicare video.
Qualche giorno dopo il sito ha rimosso quasi 9 milioni di video che provenivano da account non verificati.
Intanto una petizione americana, promossa dall’attivista Laila Mickelwait (reperibile sul sito http://traffickinghub.com) ha raccolto oltre due milioni di firme per chiedere la chiusura di PornHub.
Queste iniziative dovrebbero introdurre qualche paletto in quella che è una sorta di zona franca, protetta negli Stati Uniti dalla legge sulle telecomunicazioni che esenta chi possiede un sito dalla responsabilità dei contenuti pubblicati dagli utenti, e il caso Pornhub potrebbe indurre anche i proprietari dei social media più frequentati a fare altrettanto. In Europa la nuova normativa sui servizi digitali (il Digital Services Act), che sarà in discussione proprio in questi giorni, prevede una stretta riguardo alla rimozione di contenuti ritenuti illegali richiamando le piattaforme online alla loro responsabilità.
C’è tuttavia un fronte che resta ancora relativamente scoperto: ed è quello della tutela dei minori rispetto all’accesso precoce ai contenuti pornografici. In Italia il decreto Giustizia, convertito in legge nel giugno scorso, impone ai fornitori di connessione di offrire tra i servizi preattivati sistemi di parental control ovvero “di filtro di contenuti inappropriati per i minori e di blocco a contenuti riservati a un pubblico di età superiore agli anni diciotto”. Servizi che “devono essere gratuiti e disattivabili solo su richiesta del consumatore, titolare del contratto”. Il provvedimento ne ricalca uno analogo sollecitato dal premier inglese David Cameron già nel 2013, che tuttavia non ha mai trovato attuazione in Gran Bretagna per le difficoltà tecnologiche e per i problemi legati alla privacy che una simile soluzione comporterebbe. Il rischio è che anche in Italia il provvedimento faccia la stessa fine. E con i dati che ci confermano come l’accesso ai servizi online cominci a un’età sempre più bassa si tratterebbe davvero di una scelta irresponsabile.