Da anni si discute di giovani e nuove tecnologie. Le posizioni sono diverse, talvolta anche faziose o retoriche. In passato c’era a tema l’uso più o meno consapevole di questi strumenti, oggi invece le questioni si sono moltiplicate, dato che – complice anche la pandemia – lo smartphone, i social e lo streaming hanno completamente permeato la quotidianità nostra e dei nostri figli.
Ne abbiamo parlato con Stefania Garassini, docente di Editoria Multimediale, Content Management e Digital Journalism all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e da sempre studiosa delle nuove tecnologie. Nel suo ultimo libro, Smartphone. Dieci ragioni per non regalarlo alla prima Comunione (e magari neanche alla Cresima), la professoressa individua la questione cruciale: “Dare in mano uno smartphone a un bambino significa privarlo della sua infanzia; immergerlo in un mondo fatto da adulti e di adulti, un mondo che non può comprendere e in cui non riesce a muoversi”. Garassini parla prima di tutto da mamma e poi da studiosa. “Lo vivo con le mie tre figlie di 15, 18 e 21 anni. Tra la prima e l’ultima, le problematiche sono state diversissime”. La più grande desiderava iscriversi a Facebook, mentre la più piccola non lo apre nemmeno e desidera stare su Instagram”. Le chiediamo come faccia a relazionarsi con le sue figlie in quanto studiosa del rapporto tra gli adolescenti e le nuove tecnologie. “Capisco bene quello che vivono i genitori: le pressioni ambientali sono enormi e i genitori non riescono a mantenere fermo un criterio di giudizio. Ho fatto anche io dei tentativi”. Ad esempio? “Ho dato prima di tutto un telefono che facesse quello per cui è nato: telefonare. Con il passare del tempo la richiesta di uno smartphone è stata pressante. In terza media ho dato uno smartphone alle mie figlie, con le app di Instagram e dei vari social, avendo però un account condiviso che potessimo utilizzare insieme. Questo non è solo un controllo ma un modo per iniziare un dialogo”.
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