Il virtuale non è reale. Questa lezione si può trarre dall’orrenda uccisione del piccolo Manuel da parte di un gruppetto di youtuber impegnati a filmare una sfida ad alta velocità su una Lamborghini. Nel virtuale, in un videogioco o metaverso che dir si voglia, quel bambino non sarebbe morto. Con un semplice reset si sarebbe passati a una nuova sfida. Game over: si riparte.
Il virtuale ha conseguenze reali. I quattro ragazzi volevano sfondare definitivamente nel virtuale, aumentare le visualizzazioni, i follower, proporre contenuti sempre più divertenti e sorprendenti per scalare gli algoritmi di YouTube e accrescere la propria celebrità. Nel virtuale. Con guadagni reali.
Divertirsi da morire
Il rapporto tra reale e virtuale è molto più complesso di quanto possano esprimere le formule che spesso usiamo per definire i due ambiti dell’esperienza umana. E forse dovremmo ricominciare proprio da qui, dal comprendere meglio una simile distinzione, se vogliamo davvero trovare un modo per aiutare i ragazzi. E’ evidente che una delle cause della tragedia di Roma sia stata il distacco sempre maggiore dalla realtà, l’illusione di vivere esclusivamente in un mondo in cui contano i numeri, i like, e dove per ottenerli si può oltrepassare qualsiasi limite. Perché in effetti nel virtuale limiti non ce ne sono, se non quelli dettati dalle prestazioni della tecnologia (immagini troppo lente o sgranate, esaurimento della batteria, e così via), in un videogioco ogni muro è attraversabile, ogni corpo può morire e risorgere all’infinito. Siamo noi la misura di quel mondo, noi che ne stabiliamo le leggi e il comportamento, noi che decidiamo quando smettere di “giocare” così che tutto possa scomparire con un tocco sulla tastiera. Se poi si tratta di video possiamo sempre riguardarli, senza percepire cosa davvero ci stiano trasmettendo ma semplicemente valutandone la capacità d’intrattenerci. “Divertirsi da morire” era il titolo di un celebre saggio di Neil Postman sulle derive della società dello spettacolo. Forse nemmeno lo studioso americano, che lo scrisse nel 1985, avrebbe immaginato quanto realistica si sarebbe rivelata la sua profezia.
Come riprendere le fila e promuovere un rapporto fecondo tra reale e virtuale? Una possibile strada è ribadire il valore del limite, come strumento per recuperare un rapporto con la realtà. In fondo il reale si caratterizza proprio perché pone un limite ai nostri sogni e deliri di onnipotenza (in psicanalisi si parla di “principio di realtà”), e ci costringe a farci i conti, a riaggiustare le nostre pretese e strategie. Limiti di età, limiti di tempo nell’uso degli strumenti, limiti a quello che si può riprendere e trasmettere. Non sono certamente – da soli – la soluzione. Ma i limiti danno contorni alle cose, costringono a interrogarsi, e in fin dei conti a capire. Anche soltanto il motivo della loro presenza. Ci vogliono adulti che sappiano mettere limiti, e che sappiano spiegarne le ragioni.
Pubblicato originariamente su puntofamiglia