Gli studi sul complesso fenomeno dalla dipendenza tecnologica (si veda ad esempio Adam Alter, Irresistible) hanno evidenziato come le logiche di funzionamento dei servizi più utilizzati siano guidate da un intento ben preciso, quello di catturare e mantenere l’attenzione degli utenti. Nulla è casuale sullo schermo di uno smartphone, ogni minimo dettaglio è orientato in questa direzione. Pensiamo ad esempio al colore rosso utilizzato per visualizzare le notifiche nei servizi di social media e nell’email: si tratta di un colore normalmente associato a situazioni di emergenza, che richiedono un intervento immediato. Si tende quindi a reagire nello stesso modo, aprendo ogni notifica nel momento in cui arriva, ben sapendo che nella stragrande maggioranza dei casi è relativa a qualcosa d’irrilevante. In generale i servizi sono progettati in modo da promuovere comportamenti sempre più impulsivi da parte degli utenti, limitando l’appello alla razionalità e dunque alla libera decisione. La nostra relazione con gli schermi e con le tecnologie è sempre meno oggetto di una riflessione razionale e fa sempre di più appello diretto alla nostra emotività e ai nostri istinti.
L’obiettivo è prevedere in modo sempre più preciso e arrivare anche in qualche misura a determinare i nostri comportamenti: il fatto che cliccheremo o meno su un certo link, apriremo un’immagine o un video, leggeremo o no un certo post. Per essere sicuri di ottenere questo obiettivo può essere estremamente utile una tecnica, come il neuromarketing, che consente di individuare ciò che vogliamo ancora prima che arrivi a un livello di coscienza, quando è un impasto di pura istintualità, e come tale ingovernabile, perentorio. Ma anche relativamente facile da soddisfare, secondo un infallibile schema stimolo-risposta.
Le tecniche di neurobranding non sono dunque altro che l’evoluzione estrema di una logica già all’opera in buona parte dei servizi online che usiamo quotidianamente. E’ in atto una vera e propria “razzia” della nostra attenzione, e il modo più sicuro per catturarla è fare appello alla parte più atavica, istintuale, del nostro cervello. Gli strumenti di analisi basati sulle neuroscienze rendono così il nostro rapporto di dipendenza dalla tecnologia ancora più stretto, ponendo in modo più stringente la questione della rilevanza e del ruolo della sfera di libertà dell’individuo.
(estratto del mio contributo al volume Neurobranding, di Mariano Diotto, Edizioni Hoepli)