Il professor Joseph Weizenbaum cominciò a insospettirsi quando vide la sua segretaria, acquattata in attesa che lui si allontanasse dalla scrivania, precipitarsi alla tastiera del computer e intavolare un frenetico dialogo con ELIZA. Solo che ELIZA non era la sua migliore amica, ma un programma informatico inventato dallo stesso Weizenbaum nel 1964 per mettere alla prova le capacità delle macchine di riconoscere il linguaggio naturale. Il software dialogava con gli utenti ponendo domande e dando risposte nello stile di uno psicoterapeuta di scuola rogersiana. E per molti diventò quasi un confidente. Tanto che qualche psicologo propose di adottarlo per supplire alle carenze di personale negli ospedali. Così mentre infuriava il dibattito sull’intelligenza artificiale, con gli informatici intenti a studiare i sistemi per insegnare alle macchine a pensare come gli uomini, Weizenbaum prese nettamente le distanze dagli utilizzi distorti della sua creatura e scrisse un saggio (“Il potere dei computer e la ragione umana”) che già prevedeva il dilagare del computer nei più vari contesti della nostra esistenza, trasformati –non sempre in meglio– dalla sua presenza.
La storia di ELIZA è riportata dal giornalista americano Nicholas Carr, che nel recente Internet ci rende stupidi? (edito da Cortina) conferma le preoccupanti profezie di Weizenbaum e sancisce–risultati delle neuroscienze alla mano–i cambiamenti irreversibili che l’uso del computer e di internet ha già provocato nel modo in cui funziona la nostra mente. Se è vero che gli strumenti tecnologici non sono neutrali ma alterano in profondità i nostri schemi di conoscenza e di pensiero, come aveva anticipato Marshall McLuhan, l’impatto del computer è di gran lunga superiore a quello di tutti i suoi predecessori –dall’aratro al televisore– perché non si limita ad ampliare la portata dei nostri sensi ma simula l’attività stessa della mente. E inevitabilmente ci impone i suoi modelli, in modo implicito, attraverso l’uso di particolari programmi che impercettibilmente influenzano il modo in cui articoliamo i nostri pensieri. L’esempio più chiaro è certamente Powerpoint, l’onnipresente software per le presentazioni, che ormai ha creato una fastidiosa omologazione nello stile delle relazioni. La creatività non è più l’invenzione di qualcosa di originale, ma è la scelta da un ‘menù’ di opzioni già esistenti. Così come, per descrivere noi stessi su Facebook, dobbiamo ridurre la complessità della nostra persona a uno scarno insieme di dati da inserire nei campi di un database. A ricordarlo è Jaron Lanier, inventore della realtà virtuale, programmatore geniale, oggi ferocemente critico verso gli eccessi dell’uso della Rete, nel suo Tu non sei un gadget. Perché dobbiamo evitare che la cultura digitale si impadronisca delle nostre vite (Mondadori).